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Ieri mattina l’Università degli Studi di Milano ha assegnato le lauree ad honorem in “Comunicazione Pubblica e d’Impresa” al nostro presidente don Gino Rigoldi, don Luigi Ciotti e don Virginio Colmegna.

Di seguito la Lectio magistralis di don Gino in occasione del conferimento della laurea honoris causa.

“Voglio all’inizio di questa mia lezione ringraziare il Rettore, il Consiglio di Facoltà, e tutti coloro che hanno promosso la nostra laurea honoris causa. Per me, e credo anche per gli altri due colleghi, è un grande onore ricevere una laurea da questa nostra prestigiosa università milanese. La “scienza della comunicazione” in particolare è stata, fin dall’inizio del mio lavoro sociale e della mia predicazione come sacerdote, un’intenzione importante ed una cura molto ricercata e concreta. Ogni persona che svolga un lavoro educativo ha bisogno di curare le sue modalità di comunicazione, perché sono lo strumento di ingresso nella relazione. Agli inizi degli anni ’70 nel Carcere minorile “Beccaria” incontravo mediamente ogni anno mille giovani maschi e femmine provenienti quasi esclusivamente dal Sud Italia; dagli anni novanta è iniziato l’ingresso massiccio nel carcere minorile dei minori stranieri portatori di altra cultura, di altra religione e di altra lingua.

Questi giovani avevano certamente bisogno di essere ascoltati e capiti e poi aiutati a comprendere i problemi che avevano creato e le difficoltà che avrebbero incontrato fuori dal carcere. Occorreva avere attenzione, cura e linguaggio. Mi è parso giusto dunque confrontarmi, studiare, andare ad imparare le regole e le risorse della comunicazione. Senza una buona relazione, nei rapporti con i giovani ma anche con gli adulti è come parlare dietro una porta chiusa. Se non si apre la porta non si fa nulla. Non ho potuto frequentare qualche facoltà di “Scienze della comunicazione” e allora ho cercato ed ho trovato una ottima formatrice alla comunicazione, una importante giornalista della Rai della quale ora purtroppo non ricordo il nome.
Mi ricordo bene però le due regole fondamentali che ci insegnò: “Si parla in pubblico quando si ha qualcosa da dire e si sa cosa si vuole dire” e la seconda: “gli altri, le persone alle quali voi parlate, hanno un difetto: esistono. Esistono con la loro cultura i loro giudizi ed i loro pregiudizi, i loro interessi e così via”. Se volete comunicare dovete parlare a chi avete davanti. Due regole necessarie e fondamentali da non dimenticare mai. Esistono certamente molte modalità e molte intenzioni nella comunicazione. La modalità che io ho scelto, che ho cercato di imparare e che voglio praticare è quella di una comunicazione in funzione della relazione, siano i miei interlocutori giovani o adulti, italiani o stranieri.

Permettetemi di soffermarmi su questo termine, “relazione”, che ritengo una delle parole più importanti per la nostra vita privata, sociale, laica o cristiana ma non per questo riconosciuta, proposta e fatta diventare regola nelle quotidiane pratiche individuali e sociali, centro della educazione nella famiglia e nelle scuole. L’antropologia, la cultura, la fede nella relazione si fonda sulla convinzione che ogni essere umano è uguale a me e titolare di una dignità e di diritti sacri ed inalienabili. Per un cristiano ogni uomo o donna è figlia o figlio di Dio come me.
La conseguenza e la coerenza legata a queste convinzioni è che con questa persona, con la quale condivido la comunità sociale o religiosa, la professione, la città, posso legare rapporti, progettualità, fare comunità, vivere insieme il lavoro e la cultura, la politica o la fede. Il pregiudizio, la convinzione preliminare è che con ogni persona è possibile costruire rapporti, collaborazioni, amicizia. Ogni relazione, come ogni rapporto umano ha bisogno di onestà e di trasparenza, non è aliena dal conflitto ma ha come impegno e come desiderio quello di creare legami che possono andare dalla compagnia, all’amicizia, all’amore. Questa è un’arte, secondo me l’arte per una vita bella e buona. Ma è anche una scelta ed una disciplina, come è scelta, disciplina e processo ogni forma amore.
La capacità di relazione è facilitata da un carattere più aperto e disponibile, ma non diventa stile di vita se non è identificata come un bene, un processo da decidere, riconoscere e poi da curare, da accrescere, da proteggere, da purificare. Se parliamo della relazione sotto il profilo specifico della fede, dobbiamo affermare che la relazione è un atto di fede, una ubbidienza di fede perché è una delle prime declinazioni della pratica concreta del grande Comandamento dell’amore. Con la fede o senza la fede, una importante capacità di comunicazione e di relazione è la prima competenza che si deve richiedere ad ogni persona che svolga attività educative. Io ritengo che le incompetenze relazionali siano la più grande debolezza delle persone in generale, ed allora il lavoro per acquisire buone capacità relazionali diventa un impegno per la propria vita e per quello che si vuole realizzare, qualunque sia l’età, la professione, la fede. Gli altri non sono né estranei, né concorrenti, né nemici, ma potenziali alleati… Lo stile della relazione lo riconosci perché propone ed ha fiducia di poter creare legami.

Oggi, inquinati come siamo da relazioni opportuniste, ingannevoli e perfino violente, c’è un gran bisogno di andare a “scuola di relazioni” con una compagnia, una comunità capace di leggere i pensieri e i sentimenti. La peggiore ignoranza che incontriamo e viviamo è una grande “ignoranza in amore”. Occorre trovare il modo di “liberare” la capacità di amore e perciò di relazione che abbiamo dentro, che avvertiamo quando siamo consapevoli dei bisogni della nostra persona, come la strada del benessere e della creatività. La comunicazione della fede che offre Papa Francesco è stata per me, e spero per molti cristiani e no, uno stimolo per andare a rivedere la comunicazione che viene fatta dalla e dentro la Chiesa cattolica. Si incontrano delle magnifiche notizie e dei paradossi, che si spiegano nella storia ma che vanno rimossi.
Le cosiddette abitudini di devozione sono certamente un aiuto per la vita ma talora diventano un potente narcotico. Due esempi, e per me due vissuti, che ritengo necessario modificare: nel Vangelo Gesù ci chiama amici, ci assicura il suo amore e quello del Padre. Ci dice tralci della vite che è lui, mentre S. Paolo ci incoraggia a chiamare Dio “papà”. Difficile capire come stia insieme il Padre nostro con i vari “Signore pietà” o con il greco Kyrie eleison, e con le frequentissime affermazioni della liturgia, ma anche dalla cosiddetta devozione, che sottolineano le nostre povertà, indegnità, peccati. Pensate anche solo al Confiteor: “ Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…” Ma credo che ancora più grave sia la comunicazione del volto di Dio e di Gesù che passa attraverso il sacramento della Riconciliazione. Un elenco standard di peccati confessati da fedeli anche giovani: non essere andati a messa la domenica, avere fatto sesso fuori dalle regole, aver pregato poco, avere avuto dei litigi con qualcuno, avere detto qualche bugia. Mai sentito qualcuno confessare di non avere pagato le tasse o di avere trasgredito qualche legge civile.

L’immagine di Dio che si ricava da queste modalità, ancora oggi “normali”, è quello di un Dio meschino, piagnucoloso, legato a piccole cose, utili ma secondarie. Che fascino, che interesse può suscitare un Dio così? Ma soprattutto, Gesù, il Fondatore, è vissuto e morto per queste pur utili ma piccole cose? Non è venuto per predicare la pace, la giustizia, l’uguaglianza tra le persone, la condivisione dei beni, la risposta alo male con il bene, la cura dei poveri, l’amore di Dio Padre? Non è per questo che è stato amato ma anche ucciso? Secondo me farebbe la stessa fine anche oggi. Come minimo non farebbe carriera. Ma il nostro compito è quello della fedeltà, non degli interessi o delle opportunità, men che meno del ripetere abitudini che non comunicano la verità del suo volto.

La comunicazione è un formidabile strumento di relazione, di educazione e di verità. O, almeno, può esserlo e credo che oggi sia più che mai necessario. Grazie per averci permesso di diventare vostri colleghi.”

don Gino Rigoldi